Il jazz ibrido di Makaya McCraven

"Jazz's not dead, it just smells funny", disse Frank Zappa: il suo tipico sarcasmo infieriva su un dibattito ricorrente già molti anni fa, ovvero sulla capacità di un genere (un macro-genere, anzi) di rinnovarsi, di continuare a tenere salde le sue radici ma guardare anche al presente, al futuro. Molti artisti hanno saputo farlo, e anche negli ultimi anni sono emersi album e lavori notevoli, in questo senso. Tra questi, "In these times" di Makaya McCraven, nell'autunno 2022: il jazzista doveva esibirsi lo scorso luglio alla Triennale di Milano per un'anteprima di JazzMi, ma il concerto venne annullato per un nubifragio. Proprio per JazzMi il concerto verrà recuperato domani, 5 novembre a Base: sarà il party conclusivo della rassegna milanese.
Si potrà vedere uno show così
Il Jazz come ricerca musicale
Non solo performance, tecnica e virtuosismo come è stato negli ultimi cinquant'anni e che in buona parte lo è ancora. Il jazz come ricerca musicale corrisponde alla sua capacità di accogliere molti altri suoni, approcci e persino generi sotto il suo ombrello mentre si rinnova il suo processo. Tutto questo senza farlo diventare pure esercizio avanguardistico. Uno dei principali attori di questo rinascimento jazz è appunto Makaya McCraven, beatmaker, tecnico del suono, alchimista e batterista della scuola di Chicago.
Il metodo McCraven
Il suo lavoro è iniziato un po' di anni fa con il suo primo disco di composizioni originali “Universal Beings” del 2018, ma soprattutto con i due dischi successivi. “We're New Again – A Reimagining by Makaya McCraven” del 2020 in cui rilegge “I'm here now” il testamento sonoro di Gil Scott-Heron uscito nel 2010, dando nuova linfa alle canzoni risuonandoci sopra nuove basi più jazz e blues, mantenendo le liriche e a volte tagliandole e rendendo le parole di Gil Scott-Heron un'espressione ancora più vitale e vicino al suo periodo più jazz. Stessa cosa fece lo scorso anno con “Deciphering the message” rielaborando il materiale della Blue Note anche qui mettendo insieme vecchie registrazioni, nuove esecuzioni musicali, campionamenti e cut&paste.
Un labirinto di generi dove è piacevole perdersi
“In these times” è un progetto che è stato sedimentato nell'arco di sette lunghi anni e rappresenta un nuovo capitolo dell'evoluzione di questa ricerca, nonché il suo lavoro più completo. In questo caso si tratta di composizioni originali in cui mescolano quattro diversi set live, registrazioni in cinque differenti studi, campionamenti, drum machine e sequencer vari fondendo strumenti naturali e sintetico digitale, funk e jazz, orchestra e drum machine, J Dilla e Max Roach, Miles Davis e post-produzione in una sorta di composizione olistica. Nelle interviste McCraven si rivela persona umile e rispettosa al punto che fa fatica a pronunciare il termine jazz, “Cerco solo di creare la miglior musica possibile e non so neppure se chiamarla jazz… e forse non è necessario etichettarla in questo modo”, sostiene. Un metodo che McCraven applica anche al rock: ha collaborato al nuovo progetto degli Interpol, "Interpolations", con rielaborazioni di canzoni dell'ultimo album "The Other Side of Make-Believe": questa è la sua rielaborazione di "Big shot city".